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OLTRE LA FORMA

 

 

Il “figurare” è alla base del percorso stilistico di Giuseppe D’Angelo, percorso estremamente variegato: l’artista giunge ad una voluta ridondanza della forma  esaltata nella sua plasticità dalla ricchezza materica della superficie e dai contenuti simbolici che questa nella sua complessità veicola. La doviziosità della parte frontale si contrappone, creando un ardito paradosso, all’estrema sintesi offerta dal lato posteriore caratterizzato da una forma vuota, scavata, tormentata, protesa verso una prospettiva intimista ed esistenzialista dove la luce e l’ombra entrano in un interessante rapporto conflittuale.

Il volto umano costituisce il fulcro dell’intero corpus delle opere dello scultore siciliano: già le sue più vecchie opere “Profili in ferro” chiudono il loro percorso spaziale rappresentando il profilo del viso in modo da creare una liaison fra il linguaggio minimalista di Calder e quello inconscio del Surrealismo.

In una di queste opere il riguardante si trova a confrontarsi con la forma semplificata di un uomo dalle braccia smisurate che si protendono nello spazio. Come se fossero le braccia di una bilancia che vuole comunque sottolineare la stabilità del proprio destino, stabilità evocata dal corpo più voluminoso delle esili braccia.

L’individuo  viene rappresentato da D’Angelo come un equilibrista saldamente ancorato alla terra mediante le rigide aste verticali che sorreggono la fune: l’artista non rappresenta un funambolo sospeso nel vuoto in una rischiosa instabilità, ma  un uomo saldamente ancorato alla terra nonostante le tempeste che la vita può presentare.  Significativa al  riguardo è la frase di Umberto Saba scelta dall’artista a commento verbale dei “Profili in ferro”: “l’opera d’arte è sempre una confessione”.  Ed è infatti l’opera una confessione dell’artista che in essa manifesta, traducendoli nel proprio linguaggio artistico, i suoi pensieri più riposti, le sue convinzioni, la sua fantasia, svelando e nello stesso tempo nascondendo tutto ciò essendo negato a questo variegato contenuto un esito verbale. E’ in sostanza la stessa complessità dell’esistenza che viene rappresentata anche nelle successive sculture, le quali, così come quelle in ferro, sottolineano il passaggio dal noto allo sconosciuto mettendo in risalto il movimento dell’aria, della luce, proiettando sul pavimento, sul muro o sul piedistallo delle ombre che accentuano quell’atmosfera misteriosa verso cui l’opera introduce. L’ombra può essere manipolata per suggerire ciò che non esiste (come facevano De Chirico e i Surrealisti) o può essere utilizzata per suggerire dimensioni spaziali ignote (ricordiamo gli antichi spettacoli di ombre) dove il pubblico è chiamato ad entrare, continuando così il sottile gioco di nascondimento con l’artista, gioco che continua nelle opere Non vedo, Pensiero inconscio del 2016 ed in quelle ancora più recenti. In esse D’Angelo manipola materiali preziosi quali il marmo, pietre dure, pietre preziose, riducendole, sminuzzandole  e poi aggregandole in un mosaico le cui singole tessere di diverse forme e dimensioni sono accostate in modo da riprodurre ancora una volta un volto umano sulle cui fattezze il riguardante deve soffermarsi per trovare la corretta chiave di lettura dell’opera. Emblematici ed inquietanti sono gli occhi, occhi ipnotizzanti, che non vogliono tanto esplorare il mondo esterno, quanto catturare lo sguardo e l’attenzione dello spettatore, ammaliato dal gioco di colori e sprazzi luminosi che evocano il regno di tutto ciò che è spirituale ed inconscio. Due realtà così dialogano: quella fenomenica, quotidiana e quella fantastica, inconsapevole, onirica in cui le idee e le emozioni di ciascuno possono trovare albergo, protette dalla dimensione dell’indicibile.

La luce è un altro elemento portante delle opere scultoree di D’Angelo, anche in quelle di grande dimensione come è quella che verrà prossimamente esposta a Montecarlo: i raggi luminosi, come attesta tutta la filosofia Patristica sono metafora della sapienza, dell’essenza divina ed essi vibrano sulla preziosa superficie scultorea espandendosi dalla  specchiante piattaforma  su cui l’opera  si appoggia. La luce sembra fecondare la forma rendendo viva la fantasmagoria cromatica, talmente fulgida da attirare un’ape che si posa sul naso del viso forgiato: l’ape è  l’insetto  che rende in gran parte possibile la vita sulla terra ed è carico di molteplici contenuti simbolici, come attestano le più antiche culture, basti pensare a quella greca, romana, rinascimentale. In quest’opera l’insetto alato sembra sottolineare il rafforzamento della facoltà procreatrice: come l’ape sulla bocca del fanciullo è foriera di facoltà poetica e profetica, così sul naso (dato il noto rapporto allegorico naso/membro, in base a quanto è testimoniato da Marziale a Gogol) è un tratto deittico e referenziale ad una facoltà procreatrice.

La massa scultorea viene così forgiata in modo da essere travalicata e diventare soglia per un mondo dove l’immaginario, le idee, le emozioni vengono a fondersi in quell’affascinante microcosmo che è l’opera d’arte.

di Marina Manfredi

"L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità. 1951 Theodor Adorno."

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